Prima e dopo Caporetto

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I diari: pubblicati a valanga; alcuni preziosi, altri di infimo valore.

A un convegno, qualche anno fa, un intervento – di supremo entusiasmo – recitò che ci sarebbe voluto un diario per ogni persona in certe epoche storiche. Uno storico con la testa sul collo ribatté che sarebbe stata una sciagura. Difatti, simili fonti sono indispensabili, ma poche le preziose; di problematica sintesi. E poi, non è detto che sia la verità rivelata, un diario. Non occorre chiedersi il perché: a volte terreno minato pronto ad esplodere per sviare. Mettere in mano diari a più di una persona di buona volontà non significa far conoscere la storia, semmai aggiungere difficoltà a difficoltà nell’interpretarla. Non per nulla, esistono testi di metodologia, scienze ausiliarie, che vanno praticate per saltare fuori almeno indenni, se non infallibili, da un documento.

Questo per avvertire il benevolo ascoltatore e la persona di intelligente curiosità.

Non occorre insistere su tale via, dove anche i falsi sanno dire la loro…

E le cronache parrocchiali? Non sfuggono a rischi, benché temperati dal fatto che quasi sempre i parroci erano persone preparate, seppur non esenti da idee di parte: quella passionale patriottica (ovunque); quella della dottrina, cui certamente con onestà servivano, solo per citarne un paio.

La messe di documenti per l’argomento che qui si tratta è sterminata, ma non equamente distribuita per tutte le questioni di cui è intessuto il periodo bellico: ci sono regioni arate e terra incognita. La pubblicistica è grondante, almeno in quantità.

Qui si terrà conto soprattutto del locale, senza rinunciare a inserimenti in alvei più vasti, per non pensare che il mondo cominci a Viscone e finisca a Mellarolo

La cronaca parrocchiale di Trivignano, fra il maggio 1916 e l’aprile 1919 non va oltre le 8 pagine manoscritte, in una bellissima grafia, versata ottocentesca, del pievano don Giovanni Valerio.

Qualsivoglia fosse il credo dei parrocchiani, la Chiesa locale era riferimento per tutti, quando il parroco era una delle poche persone ben istruite, uscite da studi severissimi e da selezione a volte crudele.

Neppure un anno dopo l’inizio della guerra, la mobilitazione tocca il cappellano di Trivignano, il ventottenne don Domenico Comisso, da poco meno di tre anni in paese. Viene sostituito da don Abele Braida, cappellano di Percoto.

A Trivignao, Clauiano, Merlana e Mellarolo ci fu la solenne consacrazione della parrocchia al Sacro Cuore, devozione ripresa già nel 1915 dal vescovo di Padova mons. Luigi Pellizzo (Faedis 1860-1936), notevole fonte per le vicende della grande guerra (146 lettere al Papa). In tutte quelle cerimonie c’era la collaborazione con i cappellani militari.

La guerra, nella cronaca, è saltata per gli anni 1915-1917, e ripresa il 20 novembre di quell’anno, dopo Caporetto; anche questa parte appare redatta a posteriori.

Non si poteva rischiare! La data d’inizio è ripensata un 25 maggio 1915, mutato in 24.

Il riassunto – fulminante – degli avvenimenti non è dei migliori: “Li 20 novembre 1917…La guerra dall’Italia intimata all’Austria incominciò addì 25 (corretta in 24) maggio 1915, dopo aver occupato Gorizia con successi sul Carso, ebbe un esito infelice”.

Andando a Merlana – racconta il pievano – fui fermato…da due donne…le quali: Padrino [è la traduzione italiana di Sior santul, espressione con cui si chiamava abitualmente il parroco] dove va?mi domandarono. A Merlana, risposi. Non vada, scappi anche lei”. A Merlana una ventina di uomini gli chiedono consiglio e lui suggerisce di non andare “in bocca al lupo”. Dalla chiesa vede passare sotto la pioggia una lunga fila di carri con masserizie, uomini donne e bambini. L’esodo dai quattro paesi dura tutto il giorno e la notte. Torna a Trivignano e in chiesa trova un pieno di bersaglieri ciclisti e di lancieri e così in canonica. “La notte dal 28 al 29 le case ed i Negozi rimasti vuoti, furono letteralmente saccheggiati dai soldati italiani ai quali si unirono diversi paesani. Le famiglie fuggitive ritornarono in settimana: ma furono 67 circa individui di Trivignano che passarono il Tagliamento e divennero esuli…”. A scanso di equivoci, va precisato che simili comportamenti – e dei soldati e dei civili – si verificarono dappertutto non solo in Italia, ma anche nelle cosiddette “terre redente”.

Per passare dal locale alla grande storia, qui si accenna soltanto all’esodo biblico dei Friulani italici (quelli austriaci erano riparati in Austria e in altre località dell’Impero): circa 130.000 su 650.000 abitanti. Questi, profughi; dall’altipiano di Asiago, furono sgomberati circa 80.000 abitanti. Sciamarono in tutta l’Italia, talché fu necessario un censimento e per conoscere l’entità del fenomeno e per provvedere ai soccorsi, che si svolsero con risultati diversi. Ottimi, in certi casi (si distinsero al Nord l’Opera Bonomelli, cattolica, e la Società Umanitaria, socialista); pessimi, con punte persino di irrisione in talaltri; comunque la profuganza fu un calvario. In parlamento se ne interessarono diversi deputati friulani e personaggi del rango del socialista Filippo Turati

Accenniamo pure (rimandando a opere eccellenti come, ad esempio, “Storia di un esodo” di Elpidio Ellero) all’equazione che fu stabilita fra profughi patrioti, che andavano ad abbracciare la patria, e i rimasti “austriacanti”, clero compreso, anzi, clero soprattutto considerato tale (una ventina, nella diocesi di Udine, i sacerdoti internati). In questo ambito, ci fu la reazione sdegnata di uno storico del rango di Tiziano Tessitori (poi senatore e Ministro della Repubblica): attaccò quello che era stato il corifeo di simili definizioni, il liberale “Giornale di Udine”.

Il 2 novembre, la cronaca riporta l’esplosione della polveriera di Bolzano, disastrosa. Vetri rotti e rumore come da terremoto a Trivignano, cosicché la popolazione pernottò (coi bambini!) nelle piazze e per i campi. Pur nella intuibile situazione di miseria, le donne raccolgono offerte per sante messe onde impetrare la pace: se ne celebra una al santuario di Madonna di Grazia a Udine e là pure all’altare della Addolorata, messa anche al Carmine, offerte per il Pane di Sant’Antonio e 3 messe all’altare della B.V di Muris a Percoto. Ma le disgrazie continuano e il I marzo 1918, le campane “grande e mezzana” sono “strappate” dai campanili delle quattro chiese principali “col sigillo di sua Maestà Imperiale Reale Apostolica [sic!]”. Lo strozzare la voce delle campane fu percepito dalla gente come l’offesa più grande (a Trivignano se ne andò perfino il campanello). Il parroco annota con precisione i vari pesi. Ma poi si porteranno via anche le campane piccole, e gli Ungheresi, particolarmente invisi alla popolazione, abbatteranno la grande acacia ai casali Gallici: aveva, si dice, l’età di 200 anni!

Una fonte ben più dettagliata, il diario redatto dal m.o Michele Gigante, racconta tutti i misfatti degli occupatori, e soprattutto, degli Ungheresi. Nasce a Terenzano il m.o Gigante, nel 1862, quindi in Austria, Regno Lombardo-Veneto. Dai suoi scritti sembra emergere un quadro di carattere combattivo. Va in Seminario: vita dura, ma deve aver avuto dei professori di alto livello, a giudicare dai risultati alla matura 9 in filologia italiana, 9 in quella latina, 8 in greco… Suo compagno di classe fu Luigi Pelizzo, vescovo di Padova; una classe più indietro (come anni) erano Giosuè Cattarossi, vescovo di Belluno, Ivan Trinko; e 4 classi Giuseppe Ellero; una più in avanti Luigi Faidutti poi deputato a Vienna. Rettore era il can. Pietro Antivari, poi vescovo ausiliare a Udine.

Logico che, una volta uscito dal Seminario e conseguita la abilitazione magistrale, l’ambiente paesano fosse troppo stretto per lui. Difatti lo si capisce dalla sua vulcanica e ordinatissima attività (ha il culto della grafia). Scrive poesie (come Giuseppe Ellero) in italiano, latino, friulano e tedesco. La produzione poetica è datata; per quanto ho letto, rimane ciò che è più vicino al popolare, ad esempio una dedicata alla Madonna di Castelmonte, una in tedesco sul destino. Ma il complesso dei suoi lavori non è mai stato esaminato globalmente. Di sicuro possedeva la tecnica del verso in più lingue e non è poco. Meriterebbe una tesi di dottorato. Ha scritto sugli argomenti più disparati; compose poesie di occasione, come per la presa di Gorizia nel 1916 o per il ritorno da Lourdes di don Passoni, parroco di Jalmicco e defensor civitatis. Scrisse perfino per i suoi figli (sposato a Flaminia Cantarutti, ne ebbero 11). In una poesia latina a Tarcisio e Ippolito, li sprona a sforzarsi nello studio, avendo sempre in animo la religione e la patria. Oggi si direbbero contenuti moralistici, senza pensare che tale sarebbe anche questo giudizio. Era nello stile dei tempi e ai figli ci teneva. Per conoscenza diretta posso affermare che il figlio Tarcisio, sebbene si fosse votato ai numeri (fu un eccellente e irreprensibile segretario comunale) la patria la amò. La sua e quella degli altri, dato che salvò tanta gente ai tempi di quelli da fassine cul manarin. Viene la guerra. Si è visto che Trivignano non sfugge a panorami inquietanti con un rincorrersi di razzie violenze, ruberie, internamenti, ad opera dei soldati austrotedeschi, documentatissimi nel diario che, come la cronaca parrocchiale non nasconde le ruberie dei “locali”. Elenca i paesani in guerra, quelli che vengono internati (rischia anche lui); parla del comportamento della gente. E piomba parole di fuoco sugli Ungheresi (da noi gli Italiani internano buona parte dei parroci e migliaia di persone). Sono quelli che si danno più da fare con le ruberie: quelle per conto proprio, oltre quelle “legali”, come l’asportazione delle campane. Il diario non è stato steso contemporaneamente agli avvenimenti. Ci devono essere stati prima degli appunti, e poi ci furono ripensamenti. Per capirne il tono e la drammaticità, va storicizzato, cioè collocato in quel tempo. Con gli Ungheresi era difficile capirsi anche per la lingua e poi loro ce l’avevano con gli Italiani che avevano sempre considerato popolo amico fino alla Triplice Alleanza (convegni su Ungheria, vestiti, cibo). Per il terrore degli studenti, si può sottolineare che le scuole vengono riaperte (Gigante non prende bene neppure quella!). Salta fuori il Manzoni nel diario: il m.o Michele accosta quei soldati ai Lanzichenecchi. Nel 1916 è presa Gorizia (8 agosto) e lui ci cava il sonetto. Si è parlato dell’eroismo dei soldati nella guerra ma anche delle donne di casa (cui Gigante rende omaggio, un omaggio non consueto a quei tempi. Arrivano i profughi del Piave (483) e sono collocati in 61 famiglie! La solidarietà è grande, come è grande la sofferenza: “exationes rerum innumerabilium non dicam crebrae, sed perpetuae, et/in exationibus iniuriae non ferendae”. Lui le ha descritte in latino e i Trivignanesi le hanno vissute, rialzandosi a poco a poco, come i giunchi dopo une “torade”, una piena del Torre, il fiume temuto che accompagna la storia.

 

Ferruccio Tassin

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Ferruccio Tassin è originario di Visco (1944); studi a Gorizia; laurea a Bologna, ospite del College Internazionale “Villa S. Giacomo” del Card. Giacomo Lercaro. Socio fondatore (vicepresidente) dell’Istituto di Storia Sociale e Religiosa di Gorizia, deputato della Deputazione di Storia Patria per il Friuli, socio della Deputazione di Storia Patria per la Venezia Giulia, socio onorario del Memorial Kärnten Koroschka di Klagenfurt, membro del Direttivo della Società Filologica Friulana. Già direttore dell’Istituto per gli Incontri Culturali Mitteleuropei di Gorizia, giornalista pubblicista, redattore di “Nuova Iniziativa Isontina”, membro del comitato di redazione della rivista “Alsa”. Autore di libri, saggi, articoli di storia sociale e religiosa. Premio “Merit furlan” (Rive d’Arcano, 2008); premio Cûr e Paîs, Romans d’Isonzo 2016).