Palmanova retrovia del Carso

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di Alberto Prelli
[PROGETTO OLTRECONFINE]

 

Dopo il primo lento slancio di conquista, la guerra, che doveva essere breve, s’impantanò nelle trincee del Carso. Palmanova divenne sede di numerosi depositi della Terza Armata, come il Parco Automobilistico, Magazzini Sanitari, il Magazzino d’Artiglieria, il Parco Viveri, la Sezione Panettieri con 30 forni, capace di fornire 5.000 razioni al giorno. Fuori porta Udine, lungo viale San Marco si allestirono baracche per militari e profughi, depositi di materiali diversi ed un esteso recito per bovini che fornivano carne alle truppe.

Grande era il passaggio e movimento per la città. Il capitano chirurgo Gregorio Soldani dalla città stellata andava a Romans e così scriveva: “A Palmanova vi sono le vere retrovie della battaglia: binari improvvisati, vagoni carichi sotto scarico, soldati che spezzano la legna. Il gridio dei conducenti dei camions, il via vai, darebbe l’idea di una grande fiera, se il rombo del cannone distintissimo, non avvertisse che si tratta di ben altra cosa. La popolazione civile, appena si nota … tutto è militare”.

Un’altra immagine della frenetica attività ce la fornisce Guido Savorgnani, in viaggio da Udine ad Aiello: “La stazione di Palmanova è ingigantita. Fuori porta Udine dovetti attendere parecchio, perché venivano molte batterie di cannoni che andavano a riposo. Giungo poi alla porta Cividale e trovo la strada ingombra di carrettoni che venivano ed autocarri che andavano. Fra queste strade ingombre e fangose giungo al vecchio confine e qui una colonna di munizioni si incrocia con degli autocarri, cosicché dovetti fermarmi. Proseguii poi fra carri e carrette ed arrivai finalmente a Visco”.

Gli ignari richiamati che giungevano a Palmanova venivano a contatto con una realtà che non immaginavano. Di questo ci parla il tenente Adolfo Zamboni: “A Palmanova sostiamo in attesa di un autocarro che ci trasporti a Medea. Entriamo in una trattoria e troviamo un vecchio capitano sceso dal Carso. E’ ferito a un braccio e deve entrare in un ospedale. Ci dà molte informazioni. Sorride perché noi indossiamo la nostra diagonale fiammante e portiamo al fianco la sciabola. – Lassù ci vuol altro, cari ragazzi. I cecchini, se vi vedranno vestiti così, vi noteranno subito e non vi risparmieranno. Bisogna confondersi col soldato e armarsi di un buon moschetto”.

Il caporale Cesare Bertini tracciava una dolorosa immagine di Palmanova: “Ogni momento giungono autocarri pieni di feriti, i quali vengono portati in ospedali ed in chiesa che ne era piena. Ogni tanto passano dei tristi cortei formati da scorte che precedono dei carri coperti da drappi tricolori sotto i quali giacciono coloro che sono caduti per la Patria!”.

Già nell’estate 1915 i servizi sanitari dell’esercito italiano si trovarono ad affrontare un flusso imponente e non previsto di feriti e ammalati. Una crocerossina raccontava che una notte l’affluenza di feriti in fortezza fu così alta che si dovette occupare anche un quartiere di cavalleria, poi, il Duomo e persino la loggia in piazza, dove i feriti furono collocati alla meglio sulla paglia. Ma mancavano medici e tutto il necessario per l’assistenza.

Altra immagine dolente ci offre l’autista Gastone Bassi che trasportava i feriti dagli ospedali della fortezza alla stazione: “Il treno ospedale, lunghissimo, su cui vengono caricati, rigurgita di feriti. Solo alcuni, i più leggeri, scherzano, fumano. I più gravi mostrano la faccia bianca, magra, dalla barba incolta, fuori del bianco delle lenzuola, stando immobili nelle barelle”.

In fortezza furono  allestiti ben cinque ospedaletti e due ospedali da campo, per una capienza teorica di un migliaio di malati e feriti. Ma, i nosocomi attivati arrivarono ad accogliere 3.000 degenti.

Il numero dei decessi aumentò, tanto che l’amministrazione comunale dovette deliberare d’urgenza l’ampliamento del cimitero civile. Poi, nel 1917 fu realizzato un cimitero di guerra fuori porta Aquileia.

A causa dei numerosi depositi, la fortezza divenne obiettivo di raid aerei. Il soldato Gaetano Bassi della compagnia automobilisti ricordava il primo bombardamento: “Da due giorni fanno frequenti incursioni su Palmanova gli aeroplani nemici. Stasera ho udito vicini e frequenti colpi di cannone, seguiti dallo scoppio degli shrapnels in aria. Si udiva tra i colpi il ronzio del motore di un aeroplano. Si trattava di un velivolo nemico fatto oggetto dei nostri tiri. Essendomi lo spettacolo divenuto quasi abituale, sono rimasto al mio posto. Poi, un urlo dei miei compagni mi ha fatto balzare di macchina ed uscire di corsa all’aperto. L’aeroplano nemico volteggiava ancora sulle nostre teste tra le nuvolette bianche dei sharpnels. Al di sotto di esso una striscia di fumo candido raggiungeva il tetto del capannone, proprio sopra il mio camion. L’aviatore aveva lanciato una bomba che, fortunatamente, non era esplosa. Seguendo la corsa per ritornare al sicuro entro le sue linee ha lanciato un altro proiettile che è caduto sul terrapieno che cinge la città e scoppiando ha fatto un’ampia buca sul terreno. Poi si è dileguato”.

Dei molti bombardamenti che la fortezza subì, con vittime anche civili, grave risultò quello avvenuto la notte del 3 luglio 1917. Il palmarino Ernesto Folledore era in borgo Udine quando: “Si spegne la luce e comincia l’allarme. Corro per andare a casa, ma lo sparo del cannone mi consiglia a ritornare sui miei passi e cercare riparo in cantina. Dopo poco si sentono i caratteristici scoppi delle bombe e il rombo degli aerei nemici. Dall’unico spiraglio della cantina vedo fiamme ed entra un puzzo di bruciaticcio: catrame misto a benzina. Saliamo di corsa nel cortile e ci si para davanti una scena impressionante. Dalla parte di piazza d’armi salivano al cielo fiamme altissime. Era il parco automobilistico che bruciava. I velivoli nemici avevano potuto scendere a bassa quota e incendiare con una bomba il parco. Tutti gli automobili vennero sottratti alla furia distruggitrice col trasportarli in campagna, però una quarantina circa rimasero distrutti. Si calcola un danno di un milione di lire. Un automobilista rimase carbonizzato”.

Alle 2.00 del mattino del 24 ottobre 1917 gli austriaci iniziarono a bombardare le prime linee italiane. Alle 8.00 le fanterie germaniche e austro-ungariche si lanciarono all’attacco e fu “Caporetto”.

Le notizie sugli avvenimenti erano assolutamente confuse. La popolazione si preparava a fuggire, da tempo la propaganda italiana aveva dipinto il nemico come barbaro e sanguinario. Ma, ancora la sera del 26 ottobre, quando la rotta era inarrestabile, il sindaco di Udine faceva affiggere un manifesto che assicurava i cittadini che non correvano pericolo e li invitava alla calma, assicurandoli che avrebbe dato loro notizia di eventuali mutamenti della situazione.

Alle 3.30 del 27 ottobre Cadorna ordinava di iniziare un graduale ripiegamento sulla linea del Tagliamento.

Monsignor Merlino annotava il 27 ottobre: “Grande passaggio di truppe che ritornano. A sera incendi in diversi punti verso Gorizia e Monfalcone. Scoppi spaventosi. Continuo passaggio di militari, carri, automobili. Movimento convulso. Notizie vaghe di ritirata dei nostri con perdite enormi. Tutti con l’animo sospeso. Alla 1.30, quando si tentava di riposare un poco seduti sulle sedie nel tinello, uno scoppio terribile ci fa tutti fuggire. C’è vento, nuvoloni densi e bassi e pioggia leggera leggera. Mi metto in salvo nella sagrestia con le due persone di casa. Si prega, si trema. Un rossastro spaventoso compare in diversi punti. Sono gl’incendi che si avvicinano. Continuano gli scoppi di polveriere, di bombe, di munizioni. Mio Dio che terrore! Le lastre delle finestre della sagrestia e del Duomo finiscono in frantumi, sbattono le porte”.

Il 27 il fuciliere Duilio Faustinelli ricordava: “Che brutto spettacolo che ci toccava di vedere: incendi dei magazzini, depositi di viveri e munizioni, un diluvio di fuoco e di fumo, tutto bendidio in malora, e poi scoppi uno dietro all’altro. Come viene l’ordine di ritirarsi, ci mettiamo in fuga sotto l’imperversare del brutto tempo. Tutti imbrombati di acqua, arriviamo alla mattina a Palmanova. C’era tante truppe in ritirata, uno spavento, tutti demoralizzati, mentre gli alti comandanti erano tutti idrofobi. Sono stati requisiti due o tre forni ai borghesi e poi hanno distribuito il pane alla truppa, ma era una razione meschina. Mi sono cavato fuori il mio corredo, perché tutto sciupato per la pioggia e la fanga. Poi si fa ancora partenza, senza un minuto da perdere”.

All’alba del 28 ottobre l’avanguardia germanica sfondò la linea del Torre e alle ore 10.00 un reparto di Jäger entrò in Udine. Gli Austriaci che presero la strada Gradisca-Palmanova-Latisana si mossero più lentamente.

Il comando italiano aveva dato ordine di incendiare in fortezza i depositi di viveri, approvvigionamenti, traini, vestiario, riserve di foraggi e di paglia. Nulla doveva cadere in mano dei nemici.

Domenica 28 ottobre monsignor Merlino vergava questa triste nota: “Tutta la città è avvolta in una gran nube di fumo. L’Arsenale è in fiamme, in altri due, tre, quattro punti sono scoppiati incendi. Si odono continui scoppi. La piazza presenta un aspetto infernale. Truppa disordinata, persone borghesi spaventate escono dalle case con valigie, sacchi, involti. Carri, muli, cavalli, bambini, donne, automobili, tutto confuso, disordinato, chi piange, chi chiama, chi corre. Povera Palmanova! Io pure, preso con me ciò che di più importante teneva in Canonica, temendo imminente la generale rovina, piangendo lascio Palmanova, quasi vuota di abitanti in preda alle fiamme. Mi seguono i famigliari, le quattro suore di Milano. Le strade, le campagne sono seminate di fuggiaschi e militari sotto una pioggia rada e fina”.

Sempre la mattina del 28 ottobre il telegrafista Danilo Gracci, ferito da due schegge di sharpnel alla gamba, era alla stazione ferroviaria di Palmanova: “E’ qui una confusione da non poter nemmeno lontanamente figurarsi. La stazione è ingombra in ogni parte di feriti in barella e a piedi. Da ogni parte gemiti ed urla. Molti soldati sbandati circolano nella stazione e nelle adiacenze saccheggiando quanto trovano. Casse e bottiglie, vestimenta, scarpe. Ci dicono che deve arrivare un treno per i feriti”.

Il 29 ottobre era ancora in barella dentro la stazione e in mezzo ad altri feriti: “Veduto che treni non ne arrivavano e saputo che il nemico si avvicinava a gran passo, dopo un breve consiglio, io e l’amico Poletti decidiamo di allontanarci da Palmanova già tutta in preda alle fiamme. Sono le ore una di notte. A stento mi alzo dalla barella, mal reggendomi in gambe, con l’aiuto di un bastone faccio qualche passo dolorando terribilmente. Ci incamminiamo penosamente lungo il binario che conduce a S. Giorgio a Nogaro e facciamo così tre chilometri in 4 ore. Alle 5 di mattina del giorno 30 ottobre ci troviamo presso un passaggio a livello, sulla strada passano incessantemente truppe e carriaggi. Veniamo raccolti da un onnibus della Croce Rossa inglese. Il primo novembre alle 2 di notte giungiamo a due chilometri dal Tagliamento. La vettura sulla quale sono trasportato sprofonda col suo carico sanguinante nel fossato laterale della strada. Riesco a togliermi dalla vettura ed a trascinarmi fino al piano della strada. Vengo raccolto, posto su un mulo e su questo proseguo sino a passare il Tagliamento”.

Anche il ciclista del Genova Cavalleria Ludovico Caprara si ritrovò a Palmanova la mattina del 29 ottobre: “Il camion ferma all’angolo della strada con la piazza. Piove lentamente, fumo e fuoco si leva qua e là, i cittadini in maggioranza donne e bambini fuggono terrorizzati. Il mio compagno Cesare mi fa vedere il tascapane pieno di biancheria, nonché cioccolato, liquori. Non perdo tempo e m’infilo in un grosso bazar. Prendo ciò che voglio. Cambio la camicia fradicia con una bella camicia bianca col petto inamidato. Presi un po’ di tutto. Intanto gli scoppi aumentavano. Il mio compagno mi consigliò di asportare quanto più potevamo, trovammo un bel tappeto e lo distesi in istrada e dentro buttai roba di tutti i colori. Ormai siamo soli e padroni di così tanta grazia di Dio, una intera cittadina in preda al fuoco mentre gli abitanti fugge, piange e muore. Oche, maiali pascolano disorientati! Ho sorbito molto cognac e mi gira la testa. La situazione peggiora di minuto in minuto. Con gli occhi gonfi di fumo, girovagai un po’ e incontrai dei feriti in tenuta da ospedale. Alcuni barcollando cercavano rifugio. Ritornai sulla bella piazza di Palmanova e rividi il mio involto carico gonfio, pesante di ogni ben di Dio. Sarà stato il pomeriggio perché da molto era giorno, mi sentii così sconfortato e mi sedetti per terra quasi inebetito. Soffiava vento, il fumo aumentava, scoppi tutt’intorno. Ad un tratto arrivarono sulla piazza alcuni camion carichi di biada, il conducente mi grida: “Genova” da che parte si trova il reggimento? Io ho uno scatto di compiacimento e intanto contratto col conducente che se vuol caricare la merce faremo da buon compagni, questi accetta di buon grado”.

In Palmanova molti furono gli edifici militari dati alle fiamme con il loro contenuto, ma, accanto a questi, altrettanti civili andarono distrutti.

La sera del 30, spazzate le resistenze italiane, le truppe germaniche occuparono Codroipo, mentre il ponte sul Tagliamento era stato distrutto nel primo pomeriggio dello stesso giorno. Il 31 reparti della Isonzoarmee Zellina tentarono di bloccare la ritirata della Terza Armata verso Latisana, che, comunque riuscì a mettersi in salvo oltre il fiume. Il ponte sul Tagliamento fu fatto saltare dagli Italiani intorno alle 15.40 del primo novembre. Tra il 2 e 4 novembre gli austro-ungarici attraversarono il fiume ed il 9 erano padroni di tutto il territorio tra il Tagliamento ed il Piave.

La rotta di Caporetto costò agli Italiani 11.600 morti, oltre 22.000 feriti e più di 260.000 prigionieri; persi 3.152 cannoni, 1.700 bombarde, 3.000 mitragliatrici, 300.000 fucili, 150 vetture, 1.600 autocarri, 240 trattori, 140 motociclette. Ma anche tutto il materiale di 14 ospedali da campo, di 74 ospedaletti, più quello di 27 ospedali della Croce Rossa ed 1 del Sovrano Ordine di Malta.

Dopo tre giorni di assenza monsignor Merlino fece ritorno in fortezza e non vi trovò “più di 60 persone, poche donne con qualche fanciullo e alcuni vecchi”. Dopo una settimana la popolazione civile salì a 800, poiché molti dei profughi erano rientrati, non avendo potuto attraversare il Tagliamento a causa della distruzione dei ponti. Erano per lo più famiglie povere. I cittadini rientrati, che trovarono la loro distrutta, furono sistemati provvisoriamente in canonica, diventata pubblico rifugio. Per un confronto nel 1913 la popolazione civile all’interno delle mura contava 4.325.

Il 30 le truppe austroungariche entrarono in fortezza, divenuta una città spettrale: distrutte quasi tutte le caserme, i depositi, edifici pubblici e privati. Le case risparmiate dall’incendio erano state prima saccheggiate dagli italiani e, poi, lo furono dagli austriaci.

Iniziava un duro anno di occupazione straniera.

 

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Alberto Prelli scrive di teatro e di storia. Gli ultimi suoi lavori teatrali messi in scena sono stati “Signorine alla Grande Guerra”, interpretato da Sandra Cosatto e Francesco Accomando, che ne ha firmato anche la regia (2008), “Carnevale e sangue”, monologo, recitato da Massimo Somaglino (2011) e “Tina Modotti, gli occhi e le mani” con l’attrice/cantante Nicoletta Oscuro ed il musicista Matteo Sgobino (2016). Il radiodramma “Il differente” è stato trasmesso da RAI 2. Ha ottenuto premi teatrali nazionali e pubblicato commedie e drammi. Per quanto riguarda la storia suo interesse particolare si è rivolto alla storia della città fortezza di Palmanova e la Repubblica di Venezia. Nel tempo ha pubblicato diversi volumi, il più recente è “L’ultima vittoria della Serenissima. L’assedio di Corfù 1716” (2016). L’intervento per il progetto “Oltreconfine” è un’elaborazione tratta dal suo libro “Palmanova in fiamme. Cronache e immagini della fortezza nella Grande Guerra (1915-18)” (2007). Ha pubblicato articoli e saggi su giornali e riviste in Friuli e Veneto.