Celso Macor e il “confine buono”

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Celso Macor di Versa, quando accennava alla propria opera, si presentava con un nudo elenco di scritti; questo in una irsuta ritrosia, che potrebbe essere una qualità, lontanissima da quanto appena sfiori l’autocelebrazione.

Invece, basterebbe preporre un “maestro” alla sua opera, alle note biografiche, per capirlo in pieno. Non che si presentasse con l’insopprimibile voglia di insegnare, ma l’accostarsi alla sua produzione, poetica e in prosa, porta diritti a questa constatazione. Anche se lui non voleva, era un “maestro”: maestro per il senso della storia popolare e intima: “Storia intima del Friuli Isontino” si intitola un suo articolo su “Studi Goriziani” del ’65.

Là ammoniva: “Manca la storia di riverbero, quella che appartiene… alla verità intima delle nostre case… manca… il coraggio di uscire dal conformismo dell’abbondante retorica… lasciando monca la storia della partecipazione alla storia popolare di questo secolo…” (ma vale anche per altri secoli). Richiama “Gli ultimi” – Macor – il film di Turoldo, di rara tristezza, ma ricco d’ umanità; il dovere degli intellettuali di non abbandonare la civiltà del racconto e un invito ai giovani a non voltare la schiena. Questo suo saper essere maestro emerge in tutte le sue opere attente alla storia, capaci di volare, oltre i confini: “Patria ’l è un alc di plui font dal possès,/’l è un alc di tiara e di sot-tiara,/ ‘l è un splan samenât a larc,/lidriis e spazis no’ nd’àn filiadis e palès blancs,/‘l è un puest dolz di paris e vôns e fradis,/ancia ciaviestri par traditôrs ch’a’ odèin a batain/cul colôr da piel e sul sunsûr da paraulis;/‘lè un incrosâsi di storia, un ciatâsi adun/par cianâi s’giavâz da man di Diu, bon e disubidît…”.

Celso Macor, un nome, un cognome, che sono anima., era “imbombît” (“intriso” non lo rende appieno) di cultura classica fin dal nome e dal cognome. Aveva iniziato studi universitari scientifici (chimica), ma era sempre rimasto contadino: vuol dire mediatore tra la fisicità della natura, la elaborazione culturale, per mezzo degli studi, e quel tanto di divino che la natura fa sentire a chi la adopera per vivere e la sa ascoltare. Lui la sapeva ascoltare: il suo binario di vita era la ragione, fatta di studi severi e sempre in atto, volti ad una preparazione completa, premessa alla parola scritta o parlata; e il sentimento, quello che in tedesco, deriva da un verbo palpitante, si chiama fühlen, sentire, sintesi, di corpo e d’ anima, mai degenerante in sentimentalismo, che a volte – quello sì – è prono a una visione romantica, pronta a librarsi sopra gli altri, come il nazionalismo, mostro sfuggito al controllo della ragione. Tempi duri di fanciullezza e gioventù (era nato nel 1925), fra una guerra appena passata, che aveva soppresso la nostra cultura della Contea di Gorizia e Gradisca; e un’altra che stava finendo e lasciava macerie, divisioni, confini, ideologie contrapposte. In mezzo, il suo saper ascoltare la voce degli anziani, l’armonia della natura, l’amore per gli animali, “muti ausiliatori del lavoro umano”.

Studia il pensiero sotteso alle ideologie, Celso Macor, e sceglie la (solo apparente) utopia cristiana, che non impediva l’ascolto di altri. Si impegna, nella sua Versa, già da adolescente nella vita insieme (catalizzatore un prete di eccezione come il suo parroco don Michele Grusovin): fosse nel teatro, nelle associazioni e fin nella lotta partigiana, fra i Verdi della Osoppo. Su quel tempo non trincerà giudizi categorici, escludenti, ma sempre empaticamente partecipi della ragione negli altri. Nel cuore della maturità, si trova, per scelta consapevole, in un gruppo di persone che aveva a cuore la propria terra, straziata da divisioni sul diverso sentire la vita; straziata da un confine che schiantava millenaria civiltà di – pur non facili – incontri. Così, quelli che, nell’Impero dell’Austria Ungheria, erano popoli, diventano, negli stati nazionali, minoranze, ritenute non degne di vocazione autonoma, bensì torchiate a visione unificante d’ esclusione e assimilazione. Friulani, italiani, sloveni, tedeschi vengono scagliati contro, da insieme che erano. E lui entra fra quelli che si propongono di ritessere legami, che si ritenevano ormai spezzati, da quella che Churchill battezzò “cortina di ferro”.

Non era nostalgia di imperi di cartapesta, balli di corte, trine e piume, retorica, la bella, felice, e forse inesistente, età; ma consapevole inizio di comprendere l’insieme d’ una cultura ch’ era mosaico, musica di tanti solisti da far divenire orchestra. Nascono la rivista Iniziativa Isontina, l’Istituto per gli Incontri Culturali Mitteleuropei, l’Istituto Internazionale di Sociologia e, più in qua, l’Istituto di Storia Sociale e Religiosa. Strumenti per capire, studiare, intendersi, ritessere. Tutto a Gorizia, non per un localismo da complesso della capitale, ma da grano di senapa per far crescere l’albero; difatti quello di Gorizia, verso Est, divenne il confine più aperto d’Europa.

Questo il di più, rispetto al lavoro quotidiano (era addetto stampa del sindaco di Gorizia), volto anch’esso, prima a smussare angoli, socchiudere confini, fino al sogno, chiaro e profetico, della loro stessa abolizione.

Il mezzo per realizzare quelli che sembravano sogni era la parola: mezzo terribile, in una gamma di mutazioni, che spira dal canagliesco approfittare di essa, fino all’uso trepido dell’apparente utopia: utopia, in greco, vuol dire il luogo che non c’è, ma non nega che non possa diventare!

Il parlare di Celso Macor era cogente, denso; il suo scrivere era concettuale e leggero; forte e danzante, con la parola non piegata al pensiero, ma musicalmente consonante. Era un apparato formidabile per esprimere, e trasformare in essere, progetti e visioni lungamente discusse, elaborate.

Tale è la produzione: articoli, saggi, libri, discorsi, che bevevano mille affluenti e restituivano una corrente impetuosa, o lenta e maestosa.

Incontri, convegni, conferenze, mediazioni, anche scontri; nella certezza del diritto, nell’ascolto di tante ragioni, amiche e avversarie; attenzione alla scuola, passione per i giovani…Finché venne la poesia, in una lingua – quella materna, il friulano – che non prometteva travolgenti successi; priva di mezzi, a volte osteggiata, perfino irrisa da tronfia ignoranza, che pensava il numero vincente su qualità e spessore. Eppure con essa ottenne scenari europei.

Era – e rimane – poesia non occasione di esercitazioni retoriche, ma elemento d’ un sistema compiuto di idee, d’ una visione del mondo che mette Dio sopra di tutto, e il resto lascia alla ragione dell’uomo, alla sua capacità di incontro. A chi la affronti in maniera non attenta, può sembrare nostalgica; invece è profonda, fa capire come in quest’arte sia necessaria la storia, storia della povera gente, che si sviluppa fra semplicità ed epopea.

Perfino la sua prosa è ricca di elementi poetici e spesso vi si legge un ritmo.

In 40 anni di giornalismo militante ha indagato il passato; analizzato il presente, guardando costantemente al futuro, con parola efficace, essenziale, sempre capace di rinnovarsi e creare.

In questo tempo di anniversari, spesso celebrati (non analizzati) con pavonesca retorica, manca la sua acuta e severa visione, come ci manca il suo sentire, per comprendere un Mediterraneo che ribolle di tragedie e mutazioni epocali, in un’Europa da lui sognata solidale, e ora statica, irresoluta, con tentazioni barbariche di rifiuto.

Quasi presago del tempo che maturava verso il tramonto, nel 1996 (morì 2 anni dopo) il poeta aveva raccolto tutta la sua opera letteraria, in poesia e in prosa, in 2 volumi “I fucs di Belen”; ultimato “Volo con l’Aquila”, una silloge di scritti sulle Alpi Giulie (foto di Carlo Tavagnutti) in italiano, sloveno e tedesco). “Aesontius” (con foto di artisti italiani e sloveni), lo snodarsi dell’Isonzo dalle sorgenti al mare, era, come voleva la premessa, un accendersi di luce, umanità e poesia per il cammino dell’Europa nel Duemila, col testo trilingue, in italiano, sloveno, inglese. Postumi, “Silenzi in concerto” (foto di Renato Candolini), un’antologia, curata da Hans Kitzmüller, che raccoglie articoli e saggi per giornali e riviste: “Celso Macor – identità e incontri”; “Ài samenât un ciamp di barburissis Ho seminato un campo di fiordalisi”, a cura di Rienzo Pellegrini.

Insieme con Camillo Medeot, che aveva portato alla luce la nostra storia volutamente sepolta, Celso Macor, la indagò, la divulgò e se ne fece interprete con la sua colta ricchezza (partecipe della letteratura austriaca e slovena) che abbracciava il “confine buono”, spazio di scambi e di con-vivenza.

Quale saggio di questa cultura partecipe, un brano del diario di Alojzij Res da lui riportato in “Isonzo”, al 25 giugno 1915: “Vanno in rovina le nostre case sotto la pioggia di enormi schegge di ferro. E come per beffardo scherno la natura ha esposto in questa cornice tutto il paradiso della valle di Gorizia; nello stretto amplesso dell’Isonzo, di un colore verde opalescente, giacevano i nudi campi nel sole del tramonto, lussureggianti ed inviolati, in una fitta rete dorata di raggi: più dei colpi delle granate italiane doleva la bellezza della nostra terra”.

In versi, Macor racconta il Calvario:

Ài vajût l’inmens che no sai

culì su la tomba verda dal Calvari

Ài vajût dut chel che

’l è stat dibant se l’on nol à capît

pai ons senza storia

no pai generai che ’zujavin

cui soldaduts di uera

no savint ch’a’ erin ons

Trop chê bataja

Par una ponta scussada di culina?

Doimil, almancu.

Che si fedi!

Soldats ch’a vês muardût la tiara

imbombida di sanc !

Presente!!!!

Se si sintarès la uestra vôs

in alt li bandieris

onôr a li armis

Presente!

Scarsanai in purzission

ch’a van c’a’ ubidissin anciamò

’l’elmo, la sclopa, la cjâr sbregada

 

Poeta e scrittore friulano, del Friuli verso Gorizia, autenticamente europeo, capace di identità e di incontri, in una terra che di essi era intessuta e che è fatta per riscoprirli, Macor continua ad essere una testimonianza dentro la storia, nella ricerca della pace, con lo strumento della parola che si accende, plasmata dalla poesia e dalla prosa, che diviene immagine, e trasmette pensieri, eterni come le montagne e i fiumi da lui amati e cantati.

 

Ferruccio Tassin

(© riproduzione riservata)

 

Ferruccio Tassin è originario di Visco (1944); studi a Gorizia; laurea a Bologna, ospite del College Internazionale “Villa S. Giacomo” del Card. Giacomo Lercaro. Socio fondatore (vicepresidente) dell’Istituto di Storia Sociale e Religiosa di Gorizia, deputato della Deputazione di Storia Patria per il Friuli, socio della Deputazione di Storia Patria per la Venezia Giulia, socio onorario del Memorial Kärnten Koroschka di Klagenfurt, membro del Direttivo della Società Filologica Friulana. Già direttore dell’Istituto per gli Incontri Culturali Mitteleuropei di Gorizia, giornalista pubblicista, redattore di “Nuova Iniziativa Isontina”, membro del comitato di redazione della rivista “Alsa”. Autore di libri, saggi, articoli di storia sociale e religiosa. Premio “Merit furlan” (Rive d’Arcano, 2008); premio Cûr e Paîs, Romans d’Isonzo 2016).